Rossese, vino dei Papi e degli Imperatori

È un sabato di ottobre: le giornate in Liguria consentono ancora gite fuoriporta: il sole sul mare riscalda la brezza mattutina; il cielo è terso consentendo all’occhio di spaziare dall’orizzonte marino ai 2000 metri delle Alpi che, dietro Bordighera si ergono imponenti.
Percorro la Via Romana, l’antica Aurelia, imboccando la strada che da Soldano mi porterà in Val Nervia fino a Dolceacqua dove mi attende “l’ambasciatore del Roccese: alias rossese di Dolceacqua. Un percorso tra le montagne risalenti ripide dal Mar Ligure verso le Alpi, seguendo il corso dei torrenti che corrono lungo l’asse nord-sud a cadenzare territori e microclimi tanto diversi, quanto vicini tra loro.

 Giungo ad Apricale il borgo degli artisti: da apricus, esposto al sole. Il suo Castello, “della Lucertola” risalente al X secolo, ospita le rappresentazioni notturne itineranti del Teatro della Tosse. Apricale è un borgo amato e frequentato dagli artisti, pieno di botteghe d’arte e locali dove sarà possibile degustare alcune specialità della zona come la sardenaira (una pizza ricoperta da pomodoro e acciughe), lo stoccafisso, il brandacujùn (mantecato) mentre dai pascoli delle Alpi Liguri il brussu, latte di capra cagliato, salato e stagionato, dal sapore molto forte. I dolci annoverano le pansarole, frittelle servite con lo zabaione caldo, e le cubaite, composte da miele e nocciole.
Il mio sguardo è confuso tra uliveti e piccole particelle di vigna che fanno presagire una “chicca enologica”. Ridiscendo la valle parallela arrivo a Dolceacqua, “villa dulciaca” di età romana, trasformato in seguito in “Dusàiga”, attuale nome dialettale.
Sorto tra le due rive del torrente (collegate dal magnifico ponte medioevale di 33 metri di luce “a schiena d’asino”) e dominato dal Castello dei Doria, Dolceacqua trasuda di atmosfera medioevale con i suggestivi caruggi, (nome dialettale che identifica gli stretti vicoli tra le alte case di pietra e calce) che conducono al castello attraverso un percorso incantato dove pare che il tempo non sia trascorso. La luce filtra con difficoltà, creando un’atmosfera magica e surreale. Anche Claude Monet è stato stregato dal mistero di questo luogo fissandolo in 4 tele.
Così scriveva Mario Soldati del suo passaggio a Dolceacqua: “Paesaggio il più esaltante che si possa immaginare: è la prima volta che mi capita di vedere una così lunga distesa di vigneti tutta su un dosso: da una parte e dall’altra lo sguardo spazia, oltre la valle del Nervia, oltre la valle della Roya, verso l’Italia, verso il mare aperto, verso la Francia. … Dalla stessa parte, tira una tramontana fredda, tesa, vivificante: ci scende in faccia dai ghiacciai del Clapier (3150 m. slm) a meno di trenta chilometri in linea d’aria da noi! L’aspetto delle vigne ha qualche cosa di rude, di volontario, di arrischiato…..Ci rimane, è vero, il cuore dionisiaco del Piemonte, ma se pure il Barolo e il Dolcetto, il Grignolino e la Barbera saranno più grandi, non avranno mai l’incanto di questi vini privati, poetici, fantastici, nei loro paesaggi obliosi e solitari, tra le Alpi e il mare…’’
Ai piedi del Castello si trova una delle quattro sedi dell’Enoteca Regionale della Liguria, dove è possibile degustare le varie tipologie del Rossese.
La strada, sempre più irta con tornanti a 360 gradi fa solo immaginare l’altitudine percorsa: ci si “imbricca” letteralmente e, al mio arrivo, volgendo lo sguardo al borgo medioevale in fondo alla valle, intravvedo il Castello divenuto ormai minuscolo.
Le valli godono di un’esposizione paragonabile alle Langhe, ma con meno precipitazioni; si tratta di un territorio pedemontano che va dai 300 ai 600 m. s.l.m con 4 fasce climatiche, dal mediterraneo al continentale al subalpino, all’alpino. Nelle aree subalpine si arriva in agosto ad avere escursioni termiche di 14-16ºC, con il risultato di concentrare e avere più marcati i profumi negli acini.


Qui incontro Filippo Rondelli, titolare dell’azienda Terre Bianche, vero e proprio “Ambasciatore del Rossese”, uno degli attori principali nel realizzare la zonazione dei cru, già codificati a fine del 1800. Attualmente se ne contano 33 ritenuti i principali, con condizioni pedoclimatiche, altitudini, esposizioni, ventilazione e pendenza, caratterizzanti in maniera univoca e riconoscibile i prodotti delle vigne e il conseguente risultato nel bicchiere. Ne voglio ricordare alcuni: Posaú, Luvaira, Arcagna, Pian del Vescovo, Giuncheo, Alpicella.
Rondelli mi porta a scoprire anche i terreni che caratterizzano il Dolceacqua, partendo da coltri caratterizzate dall’alternanza di terreni argillosi misti a pietrame, figli di millenarie stratificazioni, a veri e propri conglomerati di argille e ciottoli, dove crescono i cru di Pian del Vescovo e Alpicella, fino ad arrivare a terreni caratterizzati dalla presenza di conchiglie e fossili marini, dove prosperano i vigneti di Arcagna. Ora comprendo appieno il primario nome dato a questo vino: roccese, vino di roccia!
Il vitigno ha origini molto antiche. Pare che l’introduzione sia avvenuta per opera degli antichi Greci: le colture ad alberello, ancora presenti, testimoniano la traccia significativa lasciata dai coloni ellenici, anche se furono gli Etruschi e soprattutto i Romani a dare impulso alla viticoltura della regione. È da sottolineare l’unicità del vitigno che non trova comunanza con nessun altro vitigno italiano o internazionale, che si è ambientato appieno lungo i pendii scoscesi e siccitosi della valle.
Le viti sono coltivate in zone impervie, dove tutte le operazioni indispensabili al mantenimento del vitigno sono obbligatoriamente manuali. La viticoltura assume la connotazione di “eroica” con le viti piantate in fazzoletti di terra strappati alla roccia grazie all’opera dei liguri che costruirono i “maixei” (i famosi muretti a secco), ma che oggi sono un ostacolo alla meccanizzazione con conseguenti rischi di abbandono.
Il ROSSESE, prima DOC in Liguria dal 1972, è un vino di colore rosso rubino intenso, tendente al granato con l’invecchiamento; al naso fragrante e fruttato, persistente, con profumo di rosa rossa, ha una forte componente minerale, di pietra focaia, e vira su ricordi di macchia mediterranea, pepe nero, coniugando frutti rossi e gialli, con una spezia sempre caratterizzante; al gusto è morbido, abbastanza caldo, con una tagliente sapidità, e un leggero retrogusto amarognolo. È un vino con una personalità che sfocia in una delicatissima acidità e in un corpo di grande struttura ma appena percepita per la sua eleganza. È per antonomasia un rosso generoso anche se non austero, dal bouquet persistente, con buona capacità di invecchiamento.
Veronelli amava i vini di queste zone, tanto da definirli la “Romanèe Conti italiana“. E davvero si possono incontrare espressioni talmente diverse e ogni volta affascinanti del Rossese, perché ogni angolo di queste terre trova analogie con le zone più vocate d’Europa.
Un grande vino amato da imperatori, grandi personaggi e papi: Andrea Doria elesse il Rossese di Dolceacqua quale vino usato per rinvigorire la ciurma prima di ogni battaglia. Fu conosciuto anche da Papa Paolo III che ne traeva gran giovamento nell’età avanzata, sostenendo che il Roccese gli restituisse vigoria “facendoci la zuppa”.
Napoleone Bonaparte, durante una visita all’antico casato dei Doria, se ne innamorò a tal punto da farsene spedire diversi barili sia a Parigi sia per accompagnare le sue campagne militari in Italia. Si dice che fosse l’unico vino portato con sé nella lunga prigionia sull’isola di Sant’Elena.

Un grande vino rosso italiano, che rispecchia quella sapidità che caratterizza la Liguria, e che grazie ai suoi tannini taglienti ma non aggressivi ben si accompagna ai piatti tipici della Liguria: La pasta cun a bagna (una specie di pizza al pomodoro), la pasta cun e erbe (la stessa pasta di pizza, ma condita con erbe di stagione finemente tagliate tritate e amalgamate con uova, formaggio aglio e prezzemolo), la pizza sardenaira, le sciure cène, (fiori di zucca ripieni di patate, verdure bollite condite con uova e formaggio); il brandacuiun, (una delicata crema di stoccafisso patate aglio e prezzemolo); I ravioli c’u pesigu’ (ravioli con pizzico) conditi con la bagna (il sugo di pomodoro con soffritto di cipolla e aggiunta di basilico e aglio) o con il classico tocco alla ligure; I gnochi de pan (gli gnocchi di pane, utilizzano il pane secco, bagnato nel latte, strizzato e fatto asciugare in padella con una noce di burro unito a bietole bollite, uova, formaggio e maggiorana bolliti e spadellati con burro fuso e formaggio; i cannelloni ripieni al tocco, 
Con i secondi piatti trova il suo abbinamento con il classico coniglio alla ligure dove il rossese ricopre il coniglio in cottura insieme a erbe aromatiche e olive in salamoia; lo stoccafisso accomodato, la buridda ; la cima con le sue salse (verde, rossa e aiolì); il roast-beef; le scaloppine ai funghi, e anche piatti più elaborati come la capra e fagioli (rigorosamente u tundin de Pigna) e il cartelètu un piatto tipico locale ottenuto dal quarto anteriore del capretto da cui si ricava una tasca e si riempie di bietole, uova e formaggio, quindi si fa cuocere, ottenendo delle cotolette ripiene. Da provare con un filetto di branzino in crosta di olive su letto di patate e pomodorini al forno.
Ben si accompagna con i formaggi locali delle malghe a pasta morbida sia vaccini che ovini, e con il già citato brusso.
Concludendo, un vino che per la sua eleganza e tagliente sapidità si abbina a molti piatti, un vino unico, incisivo che vi ammalierá facendovi trovare nel bicchiere il calore del Mediterraneo.

Franco Demoro

Ti potrebbe piacere anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *