La Cima: squisita e difficile

La cima ripiena è una specialità tanto insidiosa quanto appagante: uno di quei piatti sui quali si misura l’abilità di cuoche e cuochi. 

Perché è vero che ognuno può avere una ricetta leggermente personalizzata, ma la tecnica dev’essere quella, senza deroghe. Ed è sull’abilità e sull’esperienza che si stimano gli esiti, poiché sono talmente numerose le variabili e gli imprevisti in grado di sciupare una cima, che basta anche una piccola disattenzione per fallire la missione. Che poi c’è chi dice: «cosa vuoi che ci voglia a preparare la cima? La so fare benissimo!». Sì, ma c’è una bella differenza fra saper fare una cima ed essere in grado di prepararla a regola d’arte. E poi è un piatto che non ammette compromessi, né indulgenze di alcun genere: dev’essere perfetto, punto e basta. Certo, misurarne la perfezione diventa velleitario, ma siamo di fronte a un capolavoro culinario, una preparazione che richiede impegno, costanza, capacità tecniche ed esperienza, non una robetta qualunque, dunque massimo rigore! Per un ligure la cima è un piatto del tutto speciale, tanto da meritare un tributo perfino da Fabrizio De Andrè, forse il più grande cantautore genovese. Conciliando il racconto con la rima, Faber mette in luce le insidie nella preparazione della cima e le ingerenze degli spiritelli malvagi – i soliti demoni della cucina – che occorre contrastare affinché non guastino il piatto. Una scopa di saggina aiuterebbe a distrarre la stria (strega), che intenta a contare le paglie non si curerebbe della cuoca al lavoro. Finezze da poeta o malizie da cuciniere esperte? Chissà… 

La cima è sempre stata un piatto della festa, perfino delle grandi occasioni, come nel caso di un banchetto dei nobili Brignole Sale, a metà Settecento, quando ci vollero circa dieci chili di cima – costata una mezza fortuna! – per soddisfare i palati scelti dei commensali. Era anche un piatto da scampagnate che il poeta Martin Piaggio inserì nell’elenco delle pietanze da portare in Rùa (Ruta di Camogli), in occasione di una gita con picnic. E della versatilità della cima vogliamo parlarne? Francesco Brignardello, cuoco della famiglia Sauli, nel maggio 1786 la serve a sei commensali per antipasto, accompagnata da carciofi preparati in diversi modi. E perfino il Maestro rinascimentale Bartolomeo Scappi, suggerisce una ricetta per una preparazione analoga – la chiama pancetta, come in certi trattati ottocenteschi – spiegando che, una volta lessata e tagliata a fette, si potrà anche friggerla o scottarla sulla graticola. Ma che cos’è questa benedetta cima? È una tasca di vitello cucita a formare una sacca. Si riempie di un composto a base di uova, carni, frattaglie, verdure, formaggio grattugiato, erbe aromatiche e talvolta spezie. Il tutto, sigillato con ulteriore cucitura e posto a cuocere in acqua (in alcune zone si fa al forno o in casseruola). Terminata la cottura, si pone sotto pressione per agevolarne l’asciugatura. Si serve tagliata a fette non troppo sottili accompagnata da salsa verde o altri contorni. È ottima anche impanata e fritta. In giro per la Liguria si contano parecchie varianti: chi mette più verdure nel ripieno, chi propende per una percentuale maggiore di carni, chi aggiunge i pistacchi, chi i pinoli. Insomma, non c’è una regola precisa sugli ingredienti, purché la base sia quella, cioè uova, parmigiano, maggiorana, verdure e carni. Che poi sia più ricca di erbette, come nel Ponente, o più gialla di uova, come nel genovesato, poco conta, l’importante è che la base sia la stessa. Una buona cima dev’essere anche bella, cioè presentarsi bene: cornice regolare di carne magra e sottile, ripieno omogeneo, senza buchi, disposizione uniforme delle verdure e sapore rotondo che non deve presentare prevalenze ma risultare equilibrato e mai stucchevole. Consigliare una ricetta è semplice ma spiegare le varie fasi di realizzazione diventa assai complicato. Bisogna vederla fare più volte da mani esperte, carpire i segreti, catturare i dettagli, segnare ogni gesto anche precedente la lavorazione in cucina. Per esempio riguardo il panno con il quale si avvolgerà la cima per porla in cottura. Andrebbe lavato solo con acqua e sapone, sciacquato con cura e poi, se è il caso, rimesso a bollire in acqua pulita affinché non ceda alcun sapore, né sostanze indesiderate; oppure la fase di mescolatura del ripieno dentro la cima già chiusa, prima della cottura. Sembra quasi un’ostensione, perché la sacca, già avvolta nel panno chiuso dai lati come una grande caramella, viene agitato da una parte all’altra affinché il ripieno si mescoli a dovere e dopo la cottura si presenti omogeneo. Forse sono solo dettagli – qualcuno li chiama malizie –, ma se è indubbio che la cima richieda una cura quasi maniacale, è anche vero che sa restituire ogni attenzione quando accarezza le papille. 

Sergio Rossi

Il grande cantautore genovese Fabrizio De Andrè nel suo album Le Nuvole del 1990 ha dedicato una canzone-ricetta proprio alla Cima. Qui di seguito riportiamo il testo in dialetto genovese con la traduzione in italiano a seguire. Inutile dire che solo un genio come Faber poté trasformare una semplice ricetta di cucina in una poesia dalla bellezza così abbagliante.

Fabrizio De Andrè – ‘A ÇIMMA 

Ti t’adesciâe ‘nsce l’éndegu du matin
ch’á luxe a l’à ‘n pé ‘n tèra e l’átrù i mà
ti t’ammiâe a ou spégiu de ‘n tianin
ou çé ou s’amnià a ou spegiu dâ ruzà
ti mettiâe ou brûggu réddenu’nte ‘n cantùn
che se d’â cappa a sgûggia ‘n cuxin-a á stria
a xeûa de cuntà ‘e págge che ghe sun
‘a çimma a l’è za pinn-a a l’è za cûxia
Çé serén tèra scûa
carne ténia nu fâte néigra
nu turnâ dûa
Bell’oueggé strapunta de tûttu bun
prima de battezálu ‘ntou prebuggiun
cun dui aguggiuîn dritu ‘n púnta de pé
da súrvia ‘n zû fitu ti ‘a punziggè
àia de lûn-a végia de ciaêu de négia
ch’ou cégu ou pèrde ‘a testa l’âse ou senté
oudú de mà miscióu de pèrsa légia
cos’âtru fâ cos’âtru dàghe a ou çé
Çé serén tèra scûa
carne ténia nu fâte néigra
nu turnâ dûa
e ‘nt’ou núme de Maria
tûtti diaì de sta pûgnatta
anène via
Poi vegnan a pigiàtela i câmé
te lascian tûttu ou fûmmu dou toêu mesté
tucca a ou fantin à prima coutelà
mangè mangè nu séi chi ve mangià
Çé serén tèra scûa
carne ténia nu fâte néigra
nu turnâ dûa
e ‘nt’ou núme de Maria
tûtti diaì de sta pûgnatta
anène via

LA CIMA

Ti sveglierai sull’indaco del mattino
quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare
ti guarderai allo specchio di un tegamino
il cielo si guarderà alla specchio della rugiada
metterai la scopa dritta in un angolo
che se dalla cappa scivola in cucina la strega
a forza di contare le paglie che ci sono
la cima è già piena, è già cucita
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio
prima di battezzarla nelle erbe aromatiche
con due grossi aghi dritti in punta di piedi
da sopra a sotto svelto la pungerai
aria di luna vecchia di chiarore di nebbia
che il chierico perde la testa e l’asino il sentiero
odore di mare mescolato a maggiorana leggera
cos’altro fare cos’altro dare al cielo
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via
Poi vengono a prendertela i camerieri
ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere
tocca allo scapolo la prima coltellata
mangiate mangiate non sapete chi vi mangerà
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via

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