Un ritratto di Giovanni Rebora

Il professor Giovanni Rebora è stato un personaggio unico e insostituibile. Tentare di descriverne i tratti a beneficio di chi non abbia avuto la fortuna, il piacere e perfino l’onore di conoscerlo, è difficile.

Difficile perché cadere nella retorica o inciampare nei soliti elogi postumi è un attimo, e sarebbe un grave torto rivolto innanzitutto a lui, u prufessù – in tanti lo chiamavamo così –, che detestava la retorica sdrucciolevole. Eppure bisogna provare a raccontarlo quell’uomo dall’aspetto a volte burbero oltre il quale si nascondeva un animo sensibile.

Giovanni Rebora era uno storico. Docente di Storia medievale, poi di Storia agraria medievale e Storia economica all’Università di Genova, diresse l’Istituto di Storia moderna e contemporanea dell’ateneo genovese. Dopo la laurea in Economia soggiornò spesso a Parigi dove collaborò con Fernand Braudel e Jacques Le Goff, fra i massimi storici del XX secolo. La sua autorevolezza nel campo della storia economica e della storia dell’alimentazione è stata ed è riconosciuta dai suoi colleghi più illustri. Superfluo aggiungere altro.

Fin qui lo studioso puntiglioso, il ricercatore curioso, lo storico attento capace di guardare oltre le date e gli eventi epocali, scendendo al livello popolare per definire puntualmente le ricadute dei corsi storici sul quotidiano. Rebora ne era capace come pochi altri.

Sono, però, due i livelli da definire: il primo riguarda il saper ricercare, studiare, decifrare e interpretare i documenti, ragionare e infine esprimere le proprie considerazioni storiche; il secondo è semplificarle e renderle comprensibili a chiunque senza svilirle. Vorrei partire proprio da qui per raccontare il Rebora illuminato, dalla sua capacità di raccontare a chiunque la storia importante, autentica, profonda, documentata. Senza annoiare ma intrigando con aneddoti, curiosità, esempi concreti, similitudini e qualunque altro strumento dialettico utile innanzitutto a stabilire un contatto umano con chi aveva di fronte. Gli esempi pratici erano il suo forte.

Uno fra tanti rimane fissato nella memoria di chi ha seguito le sue lezioni all’università. Lo ha sintetizzato al meglio Giovanni Assereto, al quale lascio la parola: “In una tipica merenda ligure – il salame con le fave – l’ingrediente costoso sono le fave, non il salame, perché del salame si mangia tutto e delle fave si scarta la maggior parte. A Genova e dintorni ormai chiunque ve lo ripete, ma il primo a scriverlo, tanti anni fa, fu Giovanni Rebora”. Questa considerazione che agli stolti potrebbe apparire banale, sintetizza il concetto fondamentale della resa di un prodotto, resa che diventa essenziale per determinarne il valore autentico. Altri accademici avrebbero potuto dissertarne per ore, oppure scrivere trattati sull’argomento. Rebora era capace di semplificare senza mortificare. E soprattutto di non fermarsi all’esempio, ma usarlo come strumento efficace per esporre e insegnare un “metodo”, qualcosa di impagabile per chi ha potuto beneficiarne. Il metodo non ti abbandona mai poiché è uno “strumento”, esagerando si potrebbe quasi affermare che sia un utensile capace di consentire, a chi ha imparato ad usarlo, di smontare l’apparenza per giungere al nocciolo della verità. Applicare il metodo reboriano alla storia dell’alimentazione significa guardare oltre le evidenze, le notizie, i documenti: inquadrare le condizioni contingenti del periodo, inserire i dati nel contesto storico e infine, sempre con sguardo critico, giungere alle considerazioni finali. Tutto facile? Solo all’apparenza, salvo essere Rebora…

Poi c’era l’uomo, orgogliosamente figlio di carrettieri, innamorato delle sue radici e di Sampierdarena, il quartiere del cuore, dove trascorse quasi l’intera esistenza con la moglie Anna (che chiamava “Pi”) e i due figli, Federico e Lorenzo.

L’uomo Rebora era un essere libero, anticonformista, nemico dei luoghi comuni e delle smancerie inutili. Almeno nel suo ultimo tratto di vita, periodo in cui ho avuto la fortuna di frequentarlo, credo provasse piacere ad alleggerire il più possibile gli incontri pubblici cui era chiamato a partecipare. Non lo faceva sacrificando i contenuti, né per ingraziarsi in modo ruffiano l’uditorio, semplicemente voleva stabilire un contatto con chiunque, nella speranza di rendere interessante ogni aspetto del suo racconto e avvicinare la storia alla gente, impresa che gli riusciva benissimo. Un esempio mi aiuta a spiegarmi meglio. Piacenza, una ventina di anni fa: convegno organizzato dall’ingegner Giancarlo Spezia, amico comune, grande esperto di viticoltura e vini, inventore e costruttore di macchinari per la vigna. L’intervento di Rebora suscitò una certa aspettativa, tanto che il Vescovo locale, dopo i saluti di rito, volle intrattenersi per ascoltare quel baffuto accademico tanto decantato dallo stimato Spezia.

Con il suo solito tono confidenziale, Rebora racconta la storia del cibo come se stesse conversando amabilmente davanti a una buona pietanza. Il ragionamento lo porta per un momento all’attualità, in particolare al lavoro duro dei contadini e alle innumerevoli vessazioni causate da normative igienico-sanitarie a volte irragionevoli. In particolare fa riferimento ai piccoli caseifici appenninici che lavorando pochi litri di latte per farne formaggette, si vedono costretti a rispettare i medesimi adempimenti delle grandi industrie casearie. Improvvisamente, ecco scaturire una delle sue battute più succulente. All’incirca la frase di contesto fu questa: “Nella mia carriera di storico ho avuto accesso a documenti antichi di ogni sorta; spesso i riferimenti al cibo riguardavano i momenti di carestia e dunque la gente che moriva di stenti, malattie o letteralmente di fame, ma di formaggetta non è mai morto nessuno!”. Superfluo descrivere la reazione del pubblico in sala, con il vescovo che, pur con la sobrietà del porporato, si lasciò rapire da una risata irrefrenabile.

Rebora era così, perciò la gente gli voleva bene. Lui minimizzava, come tutti i grandi.   

Sergio Rossi

Perché manca u prufessù

Giovanni Rebora manca tremendamente come voce autorevole nel campo della storia dell’alimentazione e come grande estimatore del buon cibo e del buon vino. Si potrebbe dire che in qualche misura sia stato uno dei precursori dell’attuale moda di raccontare il cibo, quindi fra coloro che, come si dice talvolta, “hanno fatto il pane” ai tanti che oggi scrivono di cibo e cucina. Manca, soprattutto, come esperto concreto e intellettualmente onesto, nemico dei luoghi comuni e della retorica a buon prezzo, estimatore del lavoro fatto con cura, del mondo agricolo onesto e pulito, della ristorazione genuina e trasparente, di sostanza, senza troppi fronzoli. Manca la sua ironia sempre rispettosa del prossimo, salvo rari casi nei quali occorresse pungere davvero. Manca il punto di riferimento al quale rivolgersi per qualunque questione legata al mondo agroalimentare. E, infine, manca l’uomo che chi ha conosciuto ricorderà a suo modo.

Un ricordo di G.Rebora

Conobbi Rebora nel 1982, a “Balbi 6”, come chiamavamo le aule di storia moderna e contemporanea dell’Università di Genova. Lassù in cima agli scaloni, donde udivi anche le voci di Raimondo Luraghi, Salvatore Rotta, Antonio Gibelli… In quegli anni non a caso Rebora traguardava il convegno internazionale sulla dieta mediterranea che si svolse a Imperia tra l’8 e il 12 marzo 1983, e i cui Atti sono tuttora lettura preziosa. Grazie al suo “determinismo” mai rigido conobbi Braudel, Cipolla, Vilar, Wallerstein, Sanfilippo, Hocquet… Della sua saggistica possiedo pressoché tutto, e vi trovo ogni volta intuizioni fondamentali e documentatissime (sul cibo di bordo, sulle spezie, sulla trasportabilità e il “pricing” delle merci…), sebbene non mi sia sentito in toto d’accordo circa quel che Rebora scrisse a proposito dell’olio in Civiltà della forchetta. Questa figura di sampierdarenese “burbero” e innamorato di quel che indagava manca da 15 anni all’enogastronomia ligure (e non solo), ma il modo migliore di attenuare la nostalgia è – e sarà – “tramandare” il metodo storico, sagace e trasversale, che Rebora ci ha regalato in eredità. (Umberto Curti)

Il ponte a lui dedicato

Il 13 luglio 2022 è stata scoperta la targa di intitolazione di un ponte a Giovanni Rebora.  Si trova nel quartiere genovese di Sampierdarena, a pochi passi dalla casa dove il professore ha abitato per anni. L’idea di intitolargli un luogo nella zona che amava è venuta a Filippo Noceti, uno dei tanti ammiratori di Rebora, che ha avuto anche il merito di non arrendersi di fronte alle lungaggini burocratiche. In alto, la targa di intitolazione del Ponte Giovanni Rebora. Qui a destra la copertina della riedizione del libro di Giovanni Rebora: Colombo a tavola, antologia di ricette del tardo medioevo (Pentàgora Edizioni), in uscita in questi giorni.

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6 thoughts on “Un ritratto di Giovanni Rebora

  1. Caro Prufessù. Il vero padre della cultura materiale. Da allievo ad amico, con Novi a fare da trait d’union. E tutto partì da quella discussione sugli aratri.

  2. Ho avuto la fortuna di incontrarlo ed il piacere di frequentarlo. Mi rammarico di non averLo frequentato di più. Da Lui c’era sempre da imparare anche quando affrontava gli argomenti più semplici; carismatico, autorevole, cordiale, semplice nel Suo modo di essere un Signore Genovese.

  3. Ringrazio per la menzione.

    Vorrei aggiunger che ho conosciuto “O profesô” (mi scuserete per la correzione) assieme al grande Franco Monteverde, grazie a mio padre, ex assessore alla cultura del comune di Serra Riccò, il quale in una felice stagione per quel comune, riuscì ad organizzare numerose iniziative di tipo culturale, fra le quali proprio alcuni incontri con in due professori e, trascendendo i confini comunali, la presentazione di prodotti eno-gastronomici liguri in una delle zone più ricche d’Europa, tra Austria, Svizzera e Liechtenstein, al Vinobile Montfort di Feldkirch.

    Cordialità.

  4. Consultando questo sito ho un bel ricordo del Professor Rebora, che ho trattato intensamente tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90. Ha fatto parte della commissione della mia tesi di dottorato a Barcellona (1992) ed è stato un buon amico e compagno di gioventù nella scoperta della cucina genovese, nel 1986 e nel 1989, durante due lunghi soggiorni presso l’Università di Genova in qualità di ‘visiting researcher’. In ricordo di un buon maestro e amico,
    J. Carles Maixé Altés
    (Scusate perché il mio italiano non è più quello di una volta)

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