Enrico Bartolini, 15 stelle Michelin all’attivo, incontra gli studenti del Marco Polo e del Bergese di Genova. Un racconto lungo e articolato di una vita intera dedicata alla cucina, alla ricerca e all’arte, tra tecnica, noia e pazienza.
Una pioggia di stelle, un’esperienza in giro per il mondo tra grandi nomi e, soprattutto, grandi maestri da cui ha imparato e costruito non senza fatica la sua cucina, fino a radicarsi profondamente sul territorio nazionale: lo chef Enrico Bartolini, classe 1979, 15 stelle e una catena di ristoranti all’attivo, è approdato a Genova all’interno del palinsesto della Festa Nazionale del Cuoco 2025. Un’occasione per incontrare gli studenti dell’Istituto Alberghiero Marco Polo e dell’Istituto Bergese della nostra Città con una sola richiesta: basta non parlare di sè ma parlare di cucina, di arte e di filosofia. Perché di questo si parla, di arte, filosofia e cucina. Enrico Bartolini, è un uomo gentile dalla comunicazione semplice, molto distante dall’iconografia televisiva dello chef iracondo, iper perfomante, dai nervi a fior di pelle e dal lancio di piatto facile. Lo chef più stellato d’Italia è un uomo pacato, dalle idee molto chiare, un imprenditore che ha faticato e non poco per raggiungere il livello più ambito: avere più stelle di tutti i colleghi sul panorama nazionale. Senza smaniare per arrivare fino lassù, ha costruito la filosofia della sua cucina dalla linea, passo passo, rubando il mestiere e arricchendo il suo bagaglio culturale di esperienza e di conoscenza. “Inizio a cucinare facendo la spesa” sostiene. La linea, si diceva, la base, la partenza. Sottolineando l’importanza della materia prima, unica vera protagonista nella buona riuscita di una ricetta, racconta come “il buon prodotto ti faccia partire già a metà strada; basta aggiungere la tecnica ed esaltare il lavoro che il produttore ha fatto, il proprio estro e il gioco è fatto”. Lo chef coinvolge e cucina davanti a una platea di studenti straordinariamente rapiti dal racconto, senza perdere i dettagli: “la materia prima deve acquisire, non perdere”.
IL PUNTO DELLA SITUAZIONE
Secondo lo studio del sistema Excelsior, promosso da Unioncamere e unico strumento di proiezione predittiva puntuale in ambito di domanda-offerta nel mercato del lavoro, i fabbisogni delle imprese liguri nel mese di settembre 2025 evidenziano un mismatching netto. La quasi totalità delle figure più ricercate riguarda cuochi, camerieri e altre professioni della ristorazione, con una richiesta di 1.770 posti (80 in più rispetto a settembre 2024) di cui il 67,4% difficile da reperire (era il 61,6%). Il titolo di studio preferenziale per questi profili è la qualifica o diploma professionale (44,0%) e al 61,7% viene richiesta esperienza nello stesso settore. Il 37,1% delle entrate previste nella ristorazione (circa 657) sarà destinato a giovani con meno di 30 anni. Ed è qui che l’esperienza di uno chef come Bartolini cala l’asso: “quando ero ragazzo io, pre era digitale, il mestiere si rubava quando lo chef andava a fumare una sigaretta. Si aspettava si allontanasse e si apriva il famoso taccuino con le ricette”, rimarcando l’importanza di andare a bottega e di rendersi abili al lavoro, soprattutto nell’intento e nella progettualità. Bartolini parla dell’importanza della disciplina e della visione, delle regole come intento primario e ultimo nella formazione, prima di tutto, della persona e poi dello chef. Questo incontra e si scontra con la crescente richiesta di adeguati riconoscimenti monetari soprattutto relativi ai giovani: allora dove sta il problema? Sono i giovani che non hanno voglia di lavorare in cucina o sono le cucine che si rendono luoghi ostili, dove il mestiere diventa più simile allo sfruttamento rispetto alla palestra lavorativa che dovrebbe essere? Recenti inchieste scoperchiano il vaso di pandora delle brigate, dove il sogno diventa incubo, tra turni lunghissimi a 5 € l’ora, straordinari non pagati, contratti debolissimi o “pirata” in un oceano di lavoro in nero, che trasformano lo streben romantico verso le stelle in una piccola storia dell’orrore che vive e muore nel retro bottega della provincia italiana. Questo si traduce con un invito a caratteri cubitali ad abbandonare il Bel Paese in cerca di fortuna estera. Bartolini su questo è chiaro: il lavoro è duro, sia a livello fisico che psicologico ma è qui che la sua filosofia di vita/cucina diventa faro nella notte; le regole per essere sicuri, il progetto per avere un percorso da seguire, l’autenticità come leitmotiv. Tutto questo, per lui, diventato fondamentale dopo 11 anni di successi accompagnati da fallimenti e intoppi in una carriera che, a basarsi sul talento, non avrebbe dovuto veder sbavature. E lui lo racconta, senza fronzoli, proprio ai ragazzi. Ma la sorprendente gentilezza di Bartolini incoraggia e aggiunge: “se vai all’estero diventi cucina etnica laggiù ed è per questo che, dopo anni in giro per il mondo, ho deciso di rientrare in Italia e investire qui, dove posso dire di fare cucina tradizionale senza errori” tornando al principio fondamentale per cui non parla lo chef nella ricetta finale bensì il suo saper fare ne esalta la materia prima.”Dovete viaggiare, lavorare, imparare, rubare, lasciarvi ispirare ma poi dovete tornare per condividere”. Dal Vangelo secondo Bartolini.
LA ROSOLATURA CONTRO LA NOIA
La rosolatura è la base del risotto. Fare il risotto è come andare con l’auto sulla neve. Se vai troppo forte ti pianti, se vai troppo lento affondi. Devi mantenere una velocità costante, precisa. Devi avere pazienza. Ecco l’esempio calzante proposto ai ragazzi quando affronta l’annosa questione della noia in cucina. Non per chi prepara ma per chi riceve. La rosolatura come way of life, dove la cura e la dedizione si affidano a una conoscenza del territorio molto forte e dove l’egotica figura dello chef diventa punto di debolezza e non di ambizione. Per evitare, così, la noia. Tutti uguali, tutti votati alla performance, tutti nervosi, tutti concentrati come se avessero sempre qualcos’altro da fare di urgente e di più importante. La figura dello chef ha cavalcato per anni il fototipo del folle burbero (per essere gentile) mai soddisfatto e isolato a livello sociale. Un esempio da bello e dannato che tanto più aveva a che spartire con la pressione di un cardiochirurgo infantile rispetto alla proiezione generosa dell’eroe del pranzo della domenica 2.0. Inutile negare le patologie derivate dalla vita in cucina, tra ferite, vene varicose, ustioni, livello di stress ingestibile, ritmi con picchi altissimi e poco recupero, l’impossibilità di abbandonare la cucina tra un turno e l’altro, la pelle rovinata dall’esposizione continua al caldo-freddo e un’ipofisi malandata dalla regolazione costante a luce led. Sicuramente, a scavare, è un lavoro che richiede tanta passione per diventare mestiere. Bartolini qui, di nuovo, sorprende e riaccende le speranze:”Anche solo a costruire il progetto ci vuole pazienza ma è quello che rende unica l’esperienza al ristorante. Ogni raviolo deve essere da Champions League, ogni singolo boccone deve essere uguale all’altro per trovare la soddisfazione e la coerenza, le porzioni devono essere corrette. Questo richiede tempo e pazienza” Come la rosolatura perfetta di cui la signora Emilia, zia dello chef Bartolini, sarebbe fiera, parole sue.
ESTETICA E PALATO
Curare i dettagli, non a livello maniacale come limite imposto tra la vita (successo) e la morte (recensione negativa) ma perchè si ama e si rispetta ciò che si fa. All’anatema lanciatogli (true story) “fallirai perchè non hai uno standard replicato nei tuoi locali” lo chef Bartolini risponde con un sorriso: “ Io, quello standard, non lo volevo. In Italia siamo ricchi di biodiversità e io volevo esaltare quelle; se non sei fisicamente lì come fai? Così ho scelto di raccontare il talento e il territorio, dando esattamente questo nome al mio progetto di ristorazione”. Questo ha creato, in maniera naturale, un movimento attorno a Bartolini, dove ogni singolo chef responsabile del ristorante locale parla la lingua di quell’area specifica, con tutti gli oneri e onori che la regola impone. Uno standard che non è standard di per sè, una regola nell’unicità di ogni menù che, forse e in fondo, un fil rouge tra metodo e manico lo crea: l’estetica oltre al nutrirsi. Il rispetto profondo per l’esperienza necessaria, dove l’ospite va a ricercare quel qualcosa in più oltre al mero riempirsi la pancia, giustificando, anche, l’impegno economico reciproco dietro a una prenotazione in un ristorante stellato. “Ogni gesto deve essere pensato e rallentato, ogni raviolo deve essere uguale all’altro per garantire un’esperienza coerente. Per far questo ci vuole ripetizione, il chè implica pazienza. Si torna sempre lì. L’estetica, poi, è una conseguenza necessaria e ovvia di questo processo”. Prendersi tempo per fare le cose bene, non quelle complicate, bensì quelle necessarie. Infine, allenare il palato. Se lo chef non ha un palato sensibile, allenato e attento, curioso anch’esso rispetto all’origine del prodotto, alla filiera territoriale che lo custodisce, il concetto di cucina secondo Bartolini, semplicemente, decade. Parla e scrivi solo di quello che sai, diceva il saggio. Probabilmente, lo chef aggiungerebbe “..e cucina”.
MESSAGGIO CULTURALE
Ogni esperienza è tale quando entra nella memoria a lungo termine e lascia qualcosa, un’impronta. Che sia del locale, della filosofia o dello chef, ciò che conta è ciò che resta. Ecco Bartolini essere un pioniere, forse, della ricerca spasmodica di un concetto sinestetico di base nella preparazione dei suoi piatti: l’arte che prende per mano la cucina che accompagna la filosofia, la cultura del territorio e che forma un progetto culturale. Che sia al Mudec di Milano, dove lo chef gestisce la proposta di ristorazione all’interno del complesso museale, o a Venezia con il Glam (solo per citarne alcuni), la componente emotiva ed empatica di fronte a una portata del suo menù diventa conditio sine qua non per avere un pollice alto. Quasi a ricercare una “reazione stendhaliana” dove il gusto deve essere la pista di atterraggio di un viaggio che sa di agricoltura tipica, di antiche sementi, di tecniche di cottura, di idea oltre al genio, di progetto e di costanza nell’elaborazione ed esaltazione di materie prime che, spesso come in tutta Italia, vengono da una cucina di tradizione povera e contadina. “La ricetta non deve essere troppo avanguardista, deve rispettare e rappresentare chi la crea” dice ai ragazzi, smontando un po’ quell’idea eroica che forse tutti i neo iscritti agli Istituti Alberghieri coltivano, dove lo chef diventa il capo supremo dell’ecosistema cucina solo a colpi di vasocotture estreme e tecnologie imprestate al molecolare. Quale sarà, quindi, il messaggio culturale dello chef Enrico Bartolini? “Creare esperienza, la didattica dello chef annoia nei tempi, modi e finalità; il ristorante rimane il luogo dove si vuole essere sorpresi. Ancora oggi stiamo lavorando sul messaggio, mantenendo al contempo l’artigianalità e l’etica legata al territorio. La ricetta finale é il successo dello chef”. Enrico Bartolini è un uomo gentile, dicevamo, che ha creato, attorno a questo suo essere amabile comunicatore di un modo di essere e lavorare forse anacronistico, la fortuna di un progetto imprenditoriale unico. O forse è solo il talento. O il territorio. O forse è il fatto che Enrico Bartolini ha la capacità di attrarre da vicino i ragazzi verso un modo di fare cucina che potrebbe essere distantissimo dai giovani, essendo lassù tra le stelle. O, in fondo, come dice lui “quello che voglio è semplicemente attrarre le persone con qualcosa di bello di autentico”. Semplicemente.
di Hira Grossi










