La Farinata: oro della Liguria

Fra le specialità tradizionali della cucina ligure, la farinata è una delle più popolari e diffuse in tutta la regione.  Per chi non sapesse che cos’è, riporto la spiegazione di Alberto Cougnet (1850-1916), medico e gastronomo nizzardo che ne parla nel suo Il ventre dei popoli (Torino 1905):

«è una polentina fatta con farina di ceci ed acqua, messa in teglia con olio d’olivo e cotta al forno». Cougnet non si limita a questa asciutta descrizione ma cita anche le abitudini legate alla vendita del prodotto, dicendo che la farinata si compra nei negozi ove si trovano torte e ripieni ma è venduta anche in forma ambulante: «Il venditore girovago, col suo testo (tegghia larga e rotonda di rame) sul capo, va gridando per i caruggi (stradicciuole strette) di Ponticello, di Portoria, di Prè, di Sottoriva, e via dicendo: Sciòcca cäda! E dettagliandola al minuto con dei pezzettini da uno o due citti (centesimi) ai ragazzi ed agli operai».

In queste poche righe c’è l’essenza della farinata ligure: un cibo da mangiare caldo anche “al volo”, di corsa, camminando per strada o soffermandosi in uno dei botteghini che la vendono bollente, appena estratta dal forno a legna, racchiusa in un cartoccio oppure – ancor meglio – in un panino. Questi piccoli negozi, tuttora attivi qua e là per la Liguria, si chiamano sciamadde, in italiano “fiammate”, perché nei loro forni a legna, sui focolari a muro o nei fornelli a carbone arde la fiamma viva. Già a fine Cinquecento ne dà testimonianza Giambattista Confalonieri, segretario del seguito di Fabio Biondo, Patriarca di Gerusalemme, il quale le descrive così: «Fra le vie che sono di recreazione fuori le mura della Città, è la strada di Besagno et altra vicina che sono borghi di due miglia lunghi, qual altre città, poiché e palazzi e ville e botteghe non vi mancano, come ancora bettole dove si vende quella sorte di vivanda che loro chiamano gattafura e migliacci e castagnacci». Su gattafure e castagnacci non dovrebbero esserci dubbi d’interpretazione, mentre i migliacci credo fossero le farinate. Per affermarlo mi baso anche sulla definizione che di questa parola dà il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani: «vivanda fatta di farina (che un tempo dovette essere miglio brillato) cotta in padella con olio». E se è vero che un secondo significato di migliacci è specie di torta fatta col sangue d’animale, specialmente porco, rimango propenso a credere potesse trattarsi di farinate che Confalonieri, educato a Roma, definì migliacci per la somiglianza con le torte di cereali.

Questo episodio richiama alla mente la farinata bianca o di grano, specialità tipica di Savona, prodotta solo nella città della Torretta e nei dintorni. Basata su un impasto di acqua, sale e farina di grano, è una golosità da intenditori che caratterizza proprio la cultura gastronomica savonese. Si cuoce come la farinata di ceci e si mangia “in purezza”, anche se proprio per la sua straordinaria versatilità potrebbe accompagnarsi a qualunque altra pietanza. I savonesi ne sono giustamente orgogliosi, poiché si tratta di un piccolo patrimonio fortemente caratterizzante e quasi simbolico per distinguersi dalla farinata di ceci e dalle sue numerose varianti. Forse la farinata bianca di Savona meriterebbe una tutela specifica che ne protegga il nome e l’originalità: varrebbe la pena farlo per valorizzarla a dovere.

Tornando alla storia, pare che nel Quattrocento la farinata si chiamasse Scribilita, nome che Tommaso Belgrano (1838-1895), scrittore e profondo conoscitore della cultura ligure, diceva essere diffuso ancora al suo tempo, a fine Ottocento. Peraltro, Giovanni Rebora, uno dei più grandi storici dell’alimentazione del Novecento, interpretando i Capitula conservatorum seu ministrorum Comunis Janue, degli anni 1383 e 1386, parla dei pancogoli (fornai) spiegando che erano tenuti a praticare ai clienti (casanis) i prezzi degli altri fornai, specializzati nella cottura di torte, farinate ed altri cibi.

La farinata è una specialità antica che, come sempre, ha vissuto i suoi piccoli cambiamenti nel corso dei secoli, dovuti alle abitudini della gente e alla disponibilità degli ingredienti, ma rimanendo sempre assai popolare. Nel Settecento, per esempio, alla farinata viene dedicato una sorta di poemetto in rima, e nei libri dei conti delle famiglie nobili genovesi si trovano numerosi acquisti di farinata, soprattutto da mangiare la sera. D’altronde lo stesso Cougnet afferma che in certi forni di San Giorgio e di Ponticello, due quartieri del centro storico di Genova, la farinata viene cotta “al comando” per liete brigate di signori che vanno a mangiarla alla sera, ed anche dopo il teatro, innaffiandola col vino leggero di Polcevera, o di Coronata.

E sempre secondo Cougnet, la farinata non si sarebbe chiamata solo così ma bensì anche sciocca – la Sciòcca cäda! di cui sopra –. Per la verità, quello era il nome della farinata col lievito, una variante di poco differente rispetto alla classica: forse solo un minimo più spessa perché preparata aggiungendo all’impasto una piccola quantità di lievito. La sciocca rende intuibile la ragione per cui nella zona di Nizza, in Francia, la farinata conserva il nome di soccà, evidentemente derivato dal termine genovese. Farinata classica e sciocca sono due versioni differenti della stessa specialità, alle quali si sommano le varianti con l’aggiunta di altri ingredienti come rosmarino, salsiccia, bianchetti – finché ne era consentita la pesca – stracchino, carciofi ecc.

La farinata deve essere dorata, croccante all’esterno con la parte interna più morbida. Occorre buon olio d’oliva e qualche “malizia” nello stemperare la farina di ceci, nello schiumare l’impasto e nella cottura omogenea, possibilmente a legna, meglio se di essenze che non scoppiettano, per esempio il nocciolo. Nulla di così complicato, ma se non si conoscono almeno i rudimenti per la preparazione di una buona farinata, si rischia di ottenere un risultato non soddisfacente.

Non so quante altre specialità della cucina ligure siano state tanto apprezzate da tutti gli strati sociali della popolazione. La gente comune la comprava per strada, dagli ambulanti; i lavoratori la mangiavano come spuntino di mezza mattina o pranzo di mezzogiorno, come racconta anche Michele Cevasco nel 1838. I signori di cui parla Cougnet sono gli stessi citati da Maria Drago in una lettera al figlio, Giuseppe Mazzini, datata febbraio 1836. Insomma, la farinata piaceva proprio a tutti, e ancora oggi non è cambiato niente. La storia continua.

Sergio Rossi

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