Metti una sera con Vuscià

La tavola è apparecchiata per qualche amico nell’accogliente sala della Tenuta Maffone, con profumi di alta cucina casalinga fatta di spezie, aromi liguri e vino sfumato. Siamo ad Acquetico, frazione di Pieve di Teco, capitale della Valle Arroscia dove il sole buono della Liguria e l’aria di mare baciano i grappoli d’uva e li rendono maturi, pronti per innescare il miracolo del vino.

L’azienda, fondata da Eliana e Bruno, data il 2009 quando i due coniugi decidono di riprendere la tradizione della famiglia di Eliana, una delle prime della zona a imbottigliare. Accanto al vino bianco l’uva di punta rimane l’Ormeasco (vitigno derivante dal dolcetto ma oramai mutato e acclimatato su un territorio unico) declinato in ogni versione da un metodo classico, allo sciac-trà, all’Ormeasco Classico e al Superiore, per poi passare al passito, al chinato e… Vuscià si accomodi.

Vuscià, Vossia, l’antico Voi dialettale ligure rivolto alle persone di riguardo: al prete, al dottore, al sindaco e a tutte quelle degne di un rispetto intimo che meritano un po più del Lei.

Ecco che nel centro della tavola posa in bella vista la bottiglia, ultima nata della vulcanica azienda, con un’etichetta austera che trasmette rispetto e mistero nello stesso tempo. Ma non è ancora il tempo di approcciarlo, perché possiamo apprezzare davvero un vino solo quando conosciamo non solo la degustazione di un calice, ma soprattutto la storia del vino stesso.

Gli occhi di Eliana e Bruno si fanno vivaci e al contempo seriosi nel descrivere l’ultimo nato: la base è già un grande vino, quell’Ormeasco di Pornassio Superiore 2016 proveniente da un vero e proprio cru con vigne centenarie chiamato Cian di Negri. Sette mesi di botte grande e poi diciotto mesi in una botte in grés porcellanato creata dall’azienda Clayver di Vado Ligure. Seguono poi quattro anni in bottiglia (dal peso di oltre un Kilo) con una produzione di 1720 bottiglie e 120 magnum numerate e un “declassamento” da DOC a Vino Ligure per creare una sorta di Superligurian sulla scorta dei blasonati vini di Bolgheri e dintorni.

Con una certa devozione io e Augusto Manfredi, il più grande degustatore del ponente ligure (me ne assumo tutte le responsabilità a definirlo tale), stappiamo finalmente la bottiglia e subito un sentimento mi pervade: Allegria. È meraviglioso poter condividere una bottiglia, perché oltre alle emozioni delle persone, ci sono quelle del vino stesso. La degustazione è un mondo affascinante, variegato, nello scorgere in ogni calice qualcosa di più delle semplici connotazioni organolettiche.

Il vino comincia a roteare nel bicchiere, presentando un colore brillante, di un rosso rubino acceso che fa immaginare un’importante freschezza. Il naso è veramente intrigante: spazia dai classici aromi varietali dell’ormeasco della ciliegia, della visciola, all’alloro, una frutta sotto spirito, karkadè e una imponente speziatura data dalla radice e tipica del vitigno. Dopo lunghe considerazioni pensiamo che la botte in ceramica doni al vino una microossigenazione che, a differenza del legno, lo fa affinare senza trasmettere terziari troppo invadenti. Rosmarino, arbusti boschivi, leggermente balsamico, the nero. È come avvicinarsi ad una bella donna con un profumo inebriante.

Al palato il vino è caldo, con una importante freschezza, una sorprendente morbidezza, una buona tannicità: il paradigma dell’equilibrio.

Gli aromi in bocca variano dalla ciliegia ancora croccante e nello stesso tempo sotto spirito; un vino che a parer nostro ha due anime: una vivace e una più austera che ben si coniugano al sorso. Degustando questo vino, mi trovo davanti a quegli assaggi che vanno oltre i meri tecnicismi e che definire “buoni” o “di qualità” mi parrebbe a dir poco riduttivo. E  ritrovo  parti, sfaccettature, peculiarità del carattere dei produttori e aspetti della loro vita in un calice, sperimentando una sorta di empatia enoica ed eroica che fa da viatico d’elezione per l’emozione.

Un vino che ci sta mettendo completamente a nostro agio, nel parlarne e nel rapportarci con esso, nel personificarlo e nello scorgere qualcosa di più delle semplici connotazioni organolettiche. È importante riuscire a comprendere il vino nella sua estrema bellezza, ma lo è allo stesso modo elogiare la sua meravigliosa capacità di rendere ciò che è complesso e profondo per natura in qualcosa di estremamente semplice e diretto.

Credo che questo vino abbia, come l’arte, la musica e come tutto ciò che contempli l’emozione e la capacità di veicolare l’emozione stessa, la capacità di dialogare con l’assaggiatore, esperto o neofita esso sia, e di creare empatia. Una bottiglia nata per collezione, anche se sarà difficile resistere alla tentazione…Difatti noi, oltre a degustarlo, lo abbiamo abbinato.

Matteo e Giuseppina – due grandi cuochi (definirli tali non è eufemistico) – ci propongono due piatti sorprendenti: una coscia di camoscio (cacciato sulle alpi marittime) brasato agli aromi, col suo fondo, adagiato su una composta di mele renette e una riduzione di frutti di bosco; una spalla di capriolo brasato col suo fondo. Due piatti che per struttura e riduzione in cottura si sposavano a meraviglia con il protagonista a tavola, lasciando la bocca completamente neutra e predisposta al prossimo boccone. Complimenti per la maestria nel cucinare due tipologie di carni non così facili da trattare.

Ma la cena alla Tenuta Maffone ci ha proposto anche piatti tipici delle loro degustazioni: dal pane fritto con pancetta lardellata, alla sublime frittatina di erbe spontanee locali dove non manca la caratterizzante erba amara, e, per lasciare la bocca dolce ma sempre legata al territorio, i fiori d’acacia pastellati, un ricordo d’infanzia mai sopito in me per la loro delicatezza ed eleganza. Non potevano mancare ancora vini in abbinamento con l’ormeasco chinato sorprendentemente dosato nelle sue essenze. Momento di vera commozione è stato quando Eliana, con non poca emozione, ci ha presentato un Ormeasco 2006 prodotto ancora da suo papà, un cimelio di famiglia che, tralasciando le note tecniche degustative (era un gran vino!), faceva trasparire l’amore per il territorio, la fatica e la passione vera di un uomo fortemente legato ai valori della sua terra. Un regalo inaspettato, ma che, a pari importanza del vino protagonista, bisognava dare del… Vuscià.

Franco Demoro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *