Street food ligure: il leggendario panino con le fette

Se c’è la sedia è aperta (e la sedia c’è quasi sempre), se non c’è la friggitoria è chiusa.

Vico dei Crema, a Savona, è il vicolo delle “fette”, listarelle di panissa da mangiarsi fritta in mezzo alle “fugassette”, un panino rotondo e schiacciato che ricorda il pane arabo. Street food antico, da mangiarsi mentre si passeggia nella città vecchia, facendo smorfie con la bocca aperta perchè quel boccone dorato brucia, ok se brucia. Il panino termina proprio davanti alla storica fiaschetteria dietro il vescovado, tappa obbligata per un bicchiere di lumassina o pigato, ma anche un rosso beverino non ci sta male.

La panissa ligure, piatto antico e semplice (da non confondersi con quella alessandrina/vercellese, a base di riso, salsiccia e cavolo), ha radici antiche, romane addirittura, visto che si tratta di una polentina, dal latino “puls”, che all’epoca altro non era che farina di farro (da qui il nome “farinacei”), in quei tempi il cereale più diffuso tra i romani (i greci, invece, utilizzavano maggiormente l’orzo), bollita e fatta raffreddare, in pratica la “mamma” della polenta di mais che conosciamo oggi.

Nel corso dei secoli la farina si è evoluta, si sono usate quelle di miglio (in Romagna una ricetta tipica è il “migliaccio”, dove all’acqua è aggiunto anche il sangue di maiale), di castagne, di frumento e infine il mais, arrivato dalle Americhe. Veniva usato anche il panico, cereale poverissimo, oggi alla base del mangime per gli uccellini in gabbia, e proprio da panico deriverebbe il nome panissa (e anche panigacci, altra eccellenza ligure). Del resto di “panicum“ parlava anche Bonvesin de la Riva verso la fine del duecento (per i gourmet è anche il nome della via dove aveva sede il ristorante del Maestro Gualtiero Marchesi che rivoluzionò la cucina italiana negli Anni ‘80).

Torniamo alla nostra panissa, trionfo (assieme alla sorella farinata) della farina di ceci, un legume antico, proveniente dalla Turchia, conosciuto già dai romani (“cicer” era il soprannome dato a chi aveva una escrescenza sul volto, il più famoso  senza dubbio Marco Tullio Cicerone), uno dei primi alimenti consumati dall’uomo per il suo potere calorico, ed anche oggi importante alimento, è la terza leguminosa coltivata al mondo da granella, dopo soia e fagiolo. Una curiosità sui ceci secchi: in passato venivano portati sui velieri durante le traversate, servivano per chiudere i buchi provocati nel fasciame dalle teste dei chiodi che, per usura e ruggine, saltavano. Con l’acqua i ceci si gonfiavano e il buco veniva chiuso.

L’intuizione di ridurre i ceci in farina è quasi certamente ligure (le panelle palermitane, parenti strette della farinata, sarebbero nient’altro che una “esportazione” francese, angioina, della panissa ligustica, diffusa da Genova a Marsiglia), e la panissa è sicuramente la “sorella maggiore” della farinata. Era un modo per riempirsi lo stomaco con un cibo calorico e di basso costo, il pasto veloce e frugale di operai e portuali (e perchè no studenti squattrinati in trasferta a Savona, Albenga e Imperia), consumato nelle osterie, ma spesso preparato a casa e consumata nelle gamelle in pausa pranzo.

Anche perchè la panissa è versatile. La si può, come detto, consumare fritta, nelle fugassette o “strascicata” con cipolle o porro, ma anche fredda, a cubetti, condita con un filo d’olio, cipollotto, sale e pepe. A Genova una antica ricetta prevede la panissa tagliata a lasagnetta e scaldata al forno, proprio come fosse una lasagna, con un sugo di erbe selvatiche e funghi secchi. Una delizia.

Riempirsi lo stomaco, si è detto, la panissa serviva soprattutto a questo. Così, con l’ubriacatura del benessere e della nouvelle cuisine degli Anni ‘80, la panissa regrediva, a Savona rimaneva solo, eroicamente, la friggitoria di Vico dei Crema, e in tutta la Liguria chi la preparava sembrava quasi un panda da accudire e salvaguardare, come se la panissa (ma potremmo parlare anche della trippa e di altri piatti un tempo poveri) fosse un fossile di storia di civiltà materiale da studiare al museo…Invece la panissa, sottotraccia, si preparava a rinascere. Sarà la nostalgia dei sapori antichi, sarà il retrogusto di ricordo della scuola o della povertà, sarà, soprattutto, la sua grande bontà, il suo proporre, in un boccone, un territorio aspro, duro e morbido assieme qual è quello ligure, la panissa si è risvegliata trovando un suo nobile spazio sulla tavola. Oggi non c’è aperitivo, da quello più economico a quello che dura una sera, a non avere tra gli assaggini bastoncini di panissa fritta o fredda, in insalata, non c’è quasi cena gourmet a non avere, tra gli appetizer anche ciotoline di polentina di ceci, magari arricchita con gamberi o molluschi, sin gli chef stellati hanno riscoperto la bontà e la versatilità della panissa, sempre più protagonista di cene stellate. Per essere nata come “riempistomaco”, insomma, la panissa ha saputo adattarsi ai tempi diventando cibo di strada, poi vivanda conviviale e infine prodotto stellato. E ha ancora molta strada davanti…

Stefano Pezzini

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