Il cibo per i morti (e per i vivi)

Non è certo Liguria Food la sede per dibattere circa il modo in cui la civiltà occidentale si è correlata, e si correla, alla morte, tema peraltro di dimensioni smisurate.

Ai Lettori più sensibili segnalo tuttavia – ove non lo conoscano – Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, edizione BUR 1998, che m’incantò anche quanto a scorrevolezza. Per empio o grottesco che ciò appaia, nel mondo la ricorrenza dei morti (Halloween/Samhain compreso*) si è sempre legata ad alcuni riti, condotte e consumi alimentari, talora perfino cannibalici come avveniva in Amazzonia, tanto che chi oggi digitasse “il cibo e la morte” googlizzerebbe oltre 20 milioni di risultati… Non è un caso che molte regioni cucinino dolci per Ognissanti** e il successivo giorno dei defunti, né è arduo tracciarne le origini, non di rado essi fan da ponte fra paganesimo greco (Demetra), romano, ebraismo e cristianesimo. Lo intuì già il benedettino Odilone da Cluny.

“Pan dei morti” (Lombardia, Liguria…), “fave dei Morti” (Lombardia, Marche, Umbria, Lazio…), “ossa da mordere” (Piemonte, Valtellina…), “ossa dei morti” (Savonese, Piemonte, Veneto, Sicilia…), “torrone dei morti” (Napoli)… Si sospettava infatti che quelle anime visitassero i cari ancora in vita, visita che i dolcetti e biscotti avrebbero dovuto omaggiare.

E un poeta come Pascoli, ben incline alla ruralità, scrive (La tovaglia) “Le dicevano: ― Bambina! / che tu non lasci mai stesa, / dalla sera alla mattina, / ma porta dove l’hai presa, / la tovaglia bianca, appena / ch’è terminata la cena! / Bada, che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti!”…

Precisa l’antropologo Valerio Petrarca “…il rito della festa dei morti è una risposta storicamente e culturalmente determinata a uno dei problemi più radicali e universali: cosa fare dei morti. Il fine ultimo è l’incorporazione simbolica, più o meno concretamente o astrattamente intesa, dei morti all’interno della loro famiglia e della loro società”.

Quei morti – in una prospettiva unitaria e non dualistica – occorre propiziarseli, con affetto e devozione (anche noi un giorno saremo tali). E dar loro da mangiare e bere, di che scaldarsi; occorrerà onorarli con cibo sulle tombe, e brindare versando vino copioso… Occorrerà assicurar loro financo l’immortalità, quel ciclo vita-morte-vita che contraddistingue la natura e l’agricoltura (e qui mi sovverrebbe anche di Piero Camporesi…).

Nell’antico Egitto, in tal senso, cibarie non solo scortavano il cadavere, ma anche erano, per sfamarlo nell’aldilà, dipinte o scolpite su pareti o sarcofaghi.

Nella stagione dei morti la terra stessa muta ritmo, il grano appena seminato inaugura un lungo cammino, ipogeo ma simbolico, verso le germinazioni e la primavera “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano (…) muore, produce molto frutto (Giovanni:12:24)”, al calendario liturgico si affianca inoltre il dono reciproco grazie al quale via via le famiglie di una comunità, ancestralmente, si sostengono, anche in vista dei rigid’inverni… Fave (forza rigenerante), ceci, pane, verze, zucche, carne salada, castagne, noci, fichi secchi, melograni, a volte ma solo a volte frutta (di) martorana…

Non un menu codificato, sia chiaro, ma quel che semplici economie conferivano alle cucine. Solo col tempo nelle ricette trionferanno zuccheri, e le fave dei morti ricorreranno perfino (n. 622) nell’Artusi, il quale scrive “Queste pastine sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo della fava baggiana, ossia d’orto, che si usa in questa occasione cotta nell’acqua coll’osso di prosciutto. Tale usanza deve avere la sua radice nell’antichità più remota poiché la fava si offeriva alle Parche, a Plutone e a Proserpina ed era celebre per le cerimonie superstiziose (…). Gli antichi Egizi si astenevano dal mangiarne, non la seminavano, né la toccavano colle mani, e i loro sacerdoti non osavano fissar lo sguardo sopra questo legume stimandolo cosa immonda.

Le fave, e soprattutto quelle nere, erano considerate come una funebre offerta, poiché credevasi che in esse si rinchiudessero le anime dei morti, e che fossero somiglianti alle porte dell’inferno.

Nelle feste Lemurali si sputavano fave nere e si percuoteva nel tempo stesso un vaso di rame per cacciar via dalle case le ombre degli antenati, i Lemuri e gli Dei dell’inferno. Festo pretende che sui fiori di questo legume siavi un segno lugubre e l’uso di offrire le fave ai morti fu una delle ragioni, a quanto si dice, per cui Pitagora ordinò a’ suoi discepoli di astenersene; un’altra ragione era per proibir loro di immischiarsi in affari di governo, facendosi con le fave lo scrutinio nelle elezioni”…

Circa la Liguria ci ancoriamo, dopo il “becco” (pollo) del 1° novembre, soprattutto a:

  1. stocche (stoccafisso) e bacilli, “a-i morti, bacilli e stocchefisce nö gh’è casa chi nö i cöndisce”, tanto che quasi ovunque si preparava anche il cosiddetto bacillame/bacilleria, fave e castagne zuccherate, con nocciole o mandorle e albume;
  2. ai cosiddetti balletti, o ballotte, ovvero – in sintesi – le castagne lessate con la buccia, adorate dai bimbi, i quali si baloccavano anche con gli officioli, candeline (muchetti/libaeti a Levante, e ceiotti a Ponente) poetate anche dal vernacolo Nicolò Bacigalupo;
  3. infine ai pan dei morti/ossa dei morti, sebbene assenti dai ricettari di Ratto (1863) e Rossi (1865).

I pan dei morti, a base di biscotti secchi sbriciolati, hanno la forma di un panino basso e alquanto morbido (contrassegnato da una croce incisa), possono presenziare farina, cacao, vino bianco secco, frutta secca, cannella, albume… Le ossa dei morti nascono da impasti un po’ meno “ricchi” (farina, zucchero, nocciole o mandorle, un agente lievitante, talora zest di limone…) e ricordano un grissino stirato, o sono anche tondeggianti, da cotte divenendo bianche e friabili come ossa. Non esiste ricetta unica ed assoluta, ed anzi da Savona alla Val Bormida e sino ad Albenga e Valle Arroscia/Imperiese è tutto un rivaleggiar di pasticcerie… Il miglior matching enologico, sia come sia, è sempre un passito, da versare nei tulipanini a 14°C.

* le questue erano diffusissime anche in tutta Italia. In Sardegna i bimbi, prima di cena, battevan gli usci pronunciando “morti, morti!” e ricevendo così dolci, o frutta di stagione… E Aidano Schmuckher dettaglia la tradizione delle menade: “Pure in Pietra Ligure ed almeno sino al 1947, i ragazzi, figli dei meno abbienti, si recavano secondo una tradizione assai antica, presso i contadini della Val Maremola onde raccogliere prodotti orticoli (“campa pei morti”, era detta questa operazione) ossia fave, ceci, fagioli, patate e verdure in genere e olio”

** è istituita il 1° novembre in età carolingia, e diviene obbligatoria per volere del papa savonese Sisto IV.

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