Si fa presto a dire pasta…

Di Umberto Curti

Vite, ulivo, cereali, la triade mediterranea sempre più assurge a simbolo di una dieta attuale e salubre. Lungo le sponde di un mare nelle cui onde, parafrasando il romanziere napoletano Raffaele La Capria, abita più storia (e mito) che nelle acque di tutti gli oceani, i popoli hanno “gareggiato” nella lavorazione delle farine sin dai tempi delle prime schiacciatine azzime. Non a caso, si associano al pane alcuni fra i più fondanti valori simbolici della civiltà, rendendolo un alimento davvero etno-gastronomico.

Lo storico non ha talora che esilissime tracce – archeologiche e/o letterarie – per tracciare una diacronia dei cibi. Ciò vale per il pane, di cui si conoscono – confusamente – solo alcuni esordi. In origine esso si lega alla progressiva sedentarietà dell’uomo, che inaugura le coltivazioni rinunciando al nomadismo. Certamente fu tra gli Egizi, esperti costruttori di mole e forni, che acquisì un reale ruolo socioeconomico. Proprio come i semi di cacao presso i popoli precolombiani, il pane fungeva infatti da moneta salariale, e da “marchio” di elevazione. Terminate le sperimentazioni del Neolitico, risalirebbe agli Egizi (4000 a.C.) la prima pasta lievitata, tipo pasta da pane. I Greci, a propria volta, appresero la panificazione verosimilmente da popoli in arrivo dal Nord, nel passaggio dall’era minoica alla micenea, intorno al 1450 a. C., che sfociò poi nella più raffinata civiltà delle poleis. Roma, infine, fece del pane un alimento davvero per tutti, tanto che il prezzo di vendita della farina di frumento destinata al popolo doveva obbligatoriamente calmierarsi come inferiore al prezzo di mercato (gli scavi hanno individuato a Pompei circa 35 panetterie, in media una ogni 286 abitanti).

Quanto alla pasta, è “creazione” verosimilmente araba (itriyya, fidaws), intercettata da Genova nel medioevo, diffusissima significativamente nell’Italia del sud, a base grano duro (è leggenda che Marco Polo nel 1292 l’abbia “importata” dal Catai, i cinesi la conoscevano, ma già anche l’Italia, e due noti documenti uno del 1244 uno del 1279 riguardano Genova).

Da un “Liber de coquina”, trecentesco e angioino, citiamo (traducendo): “per la tria genovese soffriggi cipolle in olio e ponile in acqua bollente, mentre cuociono aggiungi spezie, colorando e insaporendo come t’aggrada. In accompagnamento puoi unire formaggio grattugiato o in pezzi. E imbandiscile ogni volta che vorrai con capponi, uova, o qualsivoglia carne”.

Un’importante ricetta di maccheroni è nel Libro de arte coquinaria che Mastro Martino da Como compose nel ‘400, con paste sia secche sia fresche*. A Napoli essa s’impone più tardi, e comunque – sino a tutto l’800 – la pasta secca è assai presente – si evinca anche da documenti contabili – solo nell’Italia del sud e in Liguria. La bollitura del triticum durum in acqua – ma anche brodo, o latte addolcito e speziato – giunge solo in epoca medievale, età di gnocchi ovviamente non di patate (gli knoedel longobardi, →canederli), ma le dominazioni barbariche sono periodo di difficile indagine. La pasta secca, in particolare, costa poco, si conserva ottimamente, si condisce – o si accompagna – in cento modi. Gli arabi, che la essiccavano già nel secolo IX, trecento anni dopo la “esportarono” in Sicilia. Le trie, infatti, come storicizzano Françoise Sabban e Silvano Serventi, sono tagliatelle caserecce cui già nel 1154 accennò il geografo Al-Idrisi ne Il libro di Ruggero, fili (fidelini) di farina e acqua che a Trabia, presso Palermo, s’essiccavano al sole e poi s’esportavano via mare. In Sicilia il dialetto non a caso ancora usa tria bastarda, miceddi di tria… Nel 1226 un ricettario edito a Bagdad cita “strisce” sottili (impastate con farina e acqua), cotte in un sugo di carne e legumi. La Liguria, “porto” in cui sole e vento non mancavano mai d’aiutare le essiccazioni, per commerciare la pasta ne diventò una delle principali produttrici, i fidelari del ‘500 essendo una potenza economica (i pastai si aggregavano in corporazioni, vermicellari, lasagnari…, per condividere le ingenti spese e sopravanzare i fornai). E’ del ‘500 anche il boom nell’uso della forchetta. Bartolomeo Scappi, il cui monumentale ricettario vede le stampe nel 1570, riferisce di strumenti e tecniche affini alle attuali, perfino il “grattacascio” con cui alla fine spolverizzare di formaggio la pasta. E’ del XVII secolo Della discendenza e nobiltà de maccaroni, poema eroicomico del conte Francesco de Lemene da Lodi. Da parte sua Thomas Jefferson, presidente degli USA, terminato un tour italiano riportò in patria alcuni vitigni toscani, un impianto per decorticare il riso, e proprio un torchio per la pasta… Pellegrino Artusi da Forlimpopoli incentiva il consumo di un alimento oggettivamente facile e salubre, quanto mai (e sempre più) popolarmente tricolore. Così via via si consolidano le paste artigiane più gloriose e più esportate, “architettura per la bocca” come le ha definite Peter Kubelka nell’Atlante delle paste alimentari italiane.

In Liguria le paste ripiene tradizionali sono oggi essenzialmente 3, i ravioli, i pansoti, e i cosiddetti zembi. Più localmente le turle, le raviore e le castellane. Mi permetto qui di omettere barbagiuai e gattafin in quanto fritti.

I ravioli liguri, a differenza di molti altri, impiegano vitella magra ma anche frattaglie, e nell’impasto entrano pochissime uova (esiste anche una ricetta autografa del violinista Niccolò Paganini, 1840). Töccö è il pezzo di carne, il reale, donde il sugo che “parpella” (occhieggia-borbotta-cuoce) più di 3 ore a fuoco lento, con aggiunta di funghi secchi e vino (bianco se vitella, rosso se manzo). Alla Spezia aggiungono maiale. La farcia deve comunque comprendere – a differenza del Piemonte dove trionfano le carni – almeno un 30-40% di vegetali, borragine, scarola, timo nello spezzino…, e riposare al fresco per almeno mezza giornata (fuori frigo). Il Ratto (Cuciniera, 1863→) poneva il pieno dei ravioli anche nelle cappelle dei funghi rossi, al forno con töccö e parmigiano.

I pansoti sono tipicità in origine quaresimale del Golfo Paradiso, si condiscono con la salsa di noci (Juglans regia che ci giunge da Persia e Balcani), preparata nel mortaio – aglio, persa, pinoli, noci, mollica nel latte, parmigiano, sale, olio – . Il nome significa “panciuti”, sebbene altro etimo li vorrebbe collegare ad un esistito, ma fantomatico, generale Pansoit, che ad inizio ‘800 comandò una guarnigione francese acquartierata sopra Bogliasco, fra Poggio e Sessarego. Furono “presentati” nel 1961 al festival della cucina ligure di Genova-Nervi, una bella intuizione della Manuelina, ristoratrice recchese (ne dà notizia il Secolo XIX del 18 maggio), che usò per l’occasione 5 erbette del monte di Portofino e vinse il mortaio d’argento. Ma i pansoti figurano già nella Guida gastronomica Touring del 1931, e San Martino di Noceto, frazione di Rapallo, e altri luoghi ne rivendicano la paternità. Ben gonfi, la pasta, da farina ‘00’ o ‘0’, viene tagliata quadra 6 cm per lato e riempita di magro, con ricotta freschissima (un tempo prescinsêua, mai panna) e fresche erbette locali dette “preböggiön” (talora ben 15 sulle 72 conosciute), legate con parmigiano grattugiato, uova, noci, una punta di noce moscata e sale qb. All’occorrenza – non esiste una ricetta “unica” – si ricorre a sola borragine o a biete, ma perdendo qualcosa in profumi. Cuociono per circa 2-3 minuti (un po’ d’olio nell’acqua). Esiste una variante alla Spezia con riso, porri, uvetta… Infine i cappellasci, sempre col preböggiön, sono simili, ma tondi.

I zembi sono ravioloni di pesce bianco, conditi con l’arzillo dei sughi di mare (muscoli, vongole, “riciclo” di teste e lische, seppiette…) sovente al pomodoro. Zembi non significa gobbi, ma deriva dall’arabo zembil alludendo ai canestri di foglie di palma attorcigliate per il trasporto del pesce. Arzillo è viceversa – vedi il vocabolario italiano/genovese del Frisoni (1861-1929) – l’odore pungente sul mare dove prospera l’alga verde, la lattuga marina. La ricetta è nel complesso laboriosa (per via della farcia con pesce, erbe, biete, ricotta, parmigiano…) e prelibatissima. Gli zembi si gustano anche in brodo** .

Le turle, così tipiche a Cosio d’Arroscia (IM), sono ravioloni di patate ed erbe, conditi di solito con un soffritto d’aglio/porro, nocciole/noci e panna di latte, o con sugo di funghi. Le raviore, tipiche a Montegrosso Pian Latte, sono fagottini di magro, conditi con pomodoro o olio, spolverati con pecorino a scaglie. La farcia comprende erbe autoctone amare, erba luisa, “engari” (spinaci selvatici***), ortiche, menta… Talora cuociono sulla piastra. Le castellane, tipiche a Massimino (SV), sono ravioloni di verdure, da condirsi con burro, o panna di latte, o cagliata…

Per gli abbinamenti enologici, suggerisco Granaccia coi ravioli, Pigato coi pansoti, Vermentino con gli zembi. Turle, raviore e castellane possono sposare piacevolmente una Lumassina.

* sono del 1416 anche le ricette delle golose lasagne e dei ben conditi maccheroni di Antonio da Pescia, figlio di un fattore dei poderi medicei. Secondo molti, la pasta fresca sta alla secca come la cucina alla conserva… Purtroppo però la fresca sta scontando il destino del pane casereccio, che quasi nessuno prepara più (viviamo tempi frenetici)

** per le ricette di ravioli, pansoti e zembi vedi U. Curti, Genova gourmet. Storie e ricette della tradizione, Genova, 2014

*** Chenopodium bonus-henricus (farinello)

Turle
Ravioli

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